Pietro Azzolini
Articolo presente anche su Wildclimb.
Capelli scuri leggermente mossi e sopracciglia folte incorniciano uno sguardo sveglio.
Ha il piglio tipico di chi è sempre in allerta perché trabocca di energia, di idee: di vita.
Pietro Azzolini ha 23 anni e si definisce un appassionato di montagna a 360 gradi. Vuole diventare un protesista in grado di dare la possibilità alle persone con disabilità di andare in montagna: “più persone possono godere della bellezza e delle esperienze che ti fa vivere l’andare in montagna, meglio è!”
Incuriosito da quello che ho visto passare sui suoi social, chiedo e ottengo un incontro. Mezz’ora di parole libere prima di mettere magnesite sulle mani per dare il “via” all’allenamento.
Pietro, mi risulta che tu sia un atleta della nazionale italiana paraclimb.
Ho fatto il mio esordio lo scorso anno (2023) a Salt Lake City, categoria RP3 (Limited reach, power or stability), ovvero la categoria che comprende tutte le disabilità che riguardano problemi di forza, mobilità, sensibilità. La mia sfortuna/fortuna è quella di essere nato con un “agenesia parziale di piede sinistro”. In poche parole, è una mancata formazione a livello embrionale della parte anteriore del piede.
Immagino che fin dall’asilo, sia stata una sorta di arrampicata. Sempre in risalita nei confronti delle attività sportive proposte, che, per ragioni che non discuto, sicuramente non hanno tenuto conto della tua particolarità. Penso al banale “sport nazionale” propinato a tutte le età fin dalle scuole d’infanzia. Avrai avuto il tuo bel daffare per riformulare e riadattare ogni cosa alla tua realtà.
Sì, ogni volta che mi si presentava un nuovo sport, ho sempre dovuto studiare con che protesi approcciare l’attività che avevo intenzione di fare. Sono sempre stato molto sportivo ed ho provato di tutto. Il primo amore è stato il basket, che ho praticato dall’età della prima elementare fino ai 16/17 anni. In contemporanea ho provato davvero tante discipline: dalla mountain-bike, su e giù per i sentieri della Maddalena, allo snowboard, dallo skate allo scialpinismo. Poi, all’età di 17 anni, grazie a un professore, ho incontrato l’arrampicata ed è stato amore a prima vista. Forse la particolarità che mi ha fatto appassionare subito è stata il fatto di poterla praticare senza l’utilizzo della protesi: mi sentivo libero, senza quel “qualcosa” di troppo attaccato al mio corpo già di per sé perfetto. Praticarla in maniera naturale senza bisogno di artifici è stata fin da subito come una liberazione. All’inizio mi sono fatto fare una scarpetta ad hoc da un calzolaio di Brescia che ringrazio e saluto: il mitico Walter Panada. Da questo punto di vista l’ambiente bresciano mi ha sempre aiutato molto. Dalla prima scarpetta ad oggi, di idee protesiche strampalate me ne sono venute in mente una marea e, grazie a Walter e al mio amico Marco (Marco De Lorenzi, bootfitter specializzato in scarponi da sci/scialpinismo), sono sempre riuscito a trovare una soluzione alle mie esigenze. Per fare degli esempi: abbiamo preso dei vecchi scarponi da alpinismo e li abbiamo sventrati finche non siamo riusciti a farci entrare la protesi, abbiamo “maestralizzato” un paio di Scarpa “F1” per permettermi di fare scialpinismo. Abbiamo preso le punte di un paio di sci e ci abbiamo costruito sopra delle stampelle da scialpinismo per farlo provare ad un amico senza una gamba. Insomma: una figata.
Ho visto che sul tuo account Instagram parli di “mountain for all”. Cos’è?
Il progetto di “Mountain.for.all” – https://linktr.ee/mountain.for.all – nasce due anni fa con l’intenzione di creare una community di persone che vanno in montagna con disabilità. L’idea mi è venuta mentre cercavo informazioni sulla realtà del paraclimb. Non trovavo associazioni o gruppi su cui scrivere domande anche banali: dal “come si fanno le gare” al come funzionano… volevo sapere un po’ come “girava” questo mondo ed ho trovato risposte solo da persone singole. Non un gruppo, non una associazione o una community.
Bisognava pensarla, crearla.
Sì, io volevo buttarmi in questo mondo, volevo conoscere, sperimentare, e allora son partito da una pagina Instagram con una semplice descrizione: “Community di persone che vanno in montagna con disabilità”. Ho iniziato a scrivere ad alcune persone; altre mi hanno scritto. Abbiamo fatto amicizia e così è partito “Mountain.for.all”. L’idea iniziale era di raccogliere dai “social” testimonianze di persone che con le loro disabilità riescono comunque ad andare in montagna e raccontarle con video o articoli in modo da rendere la loro testimonianza disponibile ad altri. Così è nato questo spazio dove far “atterrare” le persone, che vivono una disabilità, in questo magico mondo che è la montagna e far saper a loro, per esempio, che è possibile arrampicare anche senza una gamba, attraverso la pubblicazione di un video di Omar Al Khatib che scala.
Hai creato una sorta di rete di salvataggio, o meglio, una rete di possibilità contro la potenziale solitudine di chi si trova a dover riorganizzare tutto attorno a nuova realtà.
Spesso e volentieri eventi traumatici come la perdita di un arto o le conseguenze di incidenti debilitanti, portano a momenti di depressione e difficoltà. Ecco che trovare un gruppo di persone che è disposto ad ascoltarti, ad aiutarti e consigliarti, perché condivide quel tipo di esperienza, essendoci già passata… beh, è tanta roba.
Hai una visione molto positiva, certamente frutto di un percorso personale. Ti sei mai impantanato nel pensiero di quello che teoricamente non puoi fare? o questo pensiero non ti viene mai a trovare perché soffocato da tutto quello che è nelle tue possibilità. Hai creato una via d’uscita per tutti quelli che vedono la vita in modo molto stereotipato e, non potendo aderire in modo totale ai modelli proposti dai media, si scoraggiano velocemente. In “Mountain.for.all”, nel tuo “spazio” social, ci sono nuovi esempi di vita da “indossare”, tutti molto positivi. Usando – per una volta – bene la potenza dei social hai messo a disposizione di tutti una cassetta degli attrezzi con la quale costruire un futuro fuori dagli standard creati dai cosiddetti “normo”.
Quando ero più piccolo sì, spesso mi limitavo da solo, utilizzavo il problema del piede come una scusa. Quando invece ho cominciato a scalare mi son ritrovato a dovermi confrontare solo con me stesso e questa cosa ha rivoluzionato tutto. Ogni difficoltà è un’opportunità, ogni novità una sfida. L’aver iniziato poi a gareggiare nel mondo del paraclimbing ha amplificato questa cosa all’ennesima potenza. Vedere altre persone con “problemi” diversi, a volte anche molto più invalidanti del mio, fare le stesse cose che fai tu, fa veramente capire quanto i limiti che ci poniamo sono solo mentali. Dall’arrivo del paraclimbing in poi, posso dire che: sì, il pensiero di quello che teoricamente non posso fare non mi sta più toccando. All’inizio inizio di “Mountainforall” non avevo le idee molto chiare, erano poche e confuse. Sono partito con la pubblicazione di un semplice video, dove elencavo i concetti che volevo trasmettere e i progetti che avevo in mente di fare – tutti abbastanza in ordine sparso. Questo video apparentemente disordinato e confuso è stato subito condiviso da una marea di amici e in due giorni è arrivato a un numero di visualizzazioni che mai avrei immaginato. Da persona molto pratica e “terra terra” quale sono, mi sono trovato catapultato in mezzo all’arena social. All’inizio è stato bello e appagante, però quasi fin da subito mi son reso conto che non poteva limitarsi tutto solo ad una pagina Instagram. Il mio vero mondo sono le persone, le “sfalesiate” in compagnia, le gite pazze su in Adamello, tagliare scarpette, ricucirle, reincollarle, prendere un travetto di legno 10×10 e con la sgorbia farci un piedino d’arrampicata. L’aiuto emotivo è molto utile, ma spesso non è sufficiente; serve anche un aiuto pratico.
Questo tuo essere “terra terra” ti farà sentire forte la necessità di ricondurre le parole dei social (che costano poco e durano meno) nei prodotti concreti che vedo adesso tra le tue mai. Sembra una Pantera Laser, ma qualcosa non mi torna. Mi spieghi cosa (e come) hai fatto per ottenere questo prototipo?
È una Pantera Laser accorciata e modificata per le mie esigenze. Questa è “la numero 1”, ha una storia particolare. Ad aprile 2022 sono andato da Mauro Marcolin – il titolare di WildClimb – accompagnato dal mio amico Cesare Cunico. Gli ho parlato di “Mountain.for.all” e di quello che volevo fare a livello di “aiuto pratico” nel mondo del paraclimbing. Dopo una chiacchierata di neanche mezz’ora avevo già in mano un mega scatolone pieno zeppo di materiale: scarpe, suole, bordi, fogli di microfibra… Pensa che ho preso il materiale a Montebelluna verso mezzogiorno, sono arrivato a casa ed ho subito tirato la scrivania in mezzo alla camera. Ho acceso le luci e ho iniziato a tagliare… ho finito alle 4 di notte. Son partito con l’intenzione di aprire la scarpa per studiarla ma non c’è stato nulla da fare: il mio furore creativo ha preso il sopravvento e non mi sono più fermato. Quella notte lì, ne ho fatte di ogni. Gli unici attrezzi che avevo erano una forbice da elettricista, un foglio di carta vetro per metalli, un cucchiaino e un coltello della Opinel… ho riciclato come stampo la scarpetta interna di una protesi che usavo quando ero ragazzino, ho tagliato la punta della “Laser”, ho aperto le due bande laterali, tagliato la suola, reincollate le bande laterali, messo la suola e poi levigato tutto a suon di olio di gomito (la levigatrice per l’epoca era un optional troppo costoso)
Ho una curiosità: e la pressa? Come hai fatto?
Sostituire la pressa è stato divertente. In casa avevo solo una boule dell’acqua calda, ho usato quella. Dopo averla riempita per metà e averci messo sopra la scarpa ho pressato il tutto usando un vecchio copertone e sacchi da cemento da 25 kilogrammi. Le pareti laterali morbide della boule sono andate spingere sulla suola e sui fascioni laterali della scarpa: pressa fatta.
Di necessità virtù! E ora? Vorresti comprare dei macchinari o ti sei affezionato alla tua buona vecchia boule?
No, no. Usare la boule è stato divertente ma preferirei abbandonarla presto. La carta vetro, stufo di mangiarmi la pelle a furia di grattare via la gomma in eccesso, qualche mesetto fa mi sono deciso di sostituirla con un banchetto da finissaggio che ho installato nella cucina della mia taverna (riadattata a laboratorio). All’appello mancherebbe solo una pressa a cuscino che però costa davvero tanti soldi. Stavo pensando di costruirla utilizzando una camera d’aria da camion ma il tutto è ancora molto work in progress: per adesso si va ancora di boule e sacchi di cemento.
Visto che i social ti hanno stupito e ti hanno portato dove non pensavi di arrivare, hai pensato di provare con un crowdfunding o con il mettere in piedi una associazione?
Per il momento “Mountain.for.all” è solo una pagina Instagram, un gruppo WhatsApp e un canale YouTube. L’associazione non è stata fondata perché non ne vedevo l’utilità. Ma le cose stanno evolvendo molto velocemente. In passato l’ho evitata per questioni di responsabilità, vedi ad esempio le due uscite che ho organizzato in falesia che se fossero passate da una associazione avrei dovuto introdurre una Guida Alpina. Ultimamente però ho cambiato idea. Il tutto è partito quando volevo andare a scalare su ghiaccio ma non avevo un paio di scarponi adatti. La prima volta avevo solo i miei scarponi estivi quelli sventrati dal buon vecchio Marco De Lorenzi. Non volendo rinunciare ci sono andato lo stesso e il risultato non è stato dei migliori: mi son congelato i piedi. Appena tornato a casa da quella giornata ho quindi fatto un video su Instagram chiedendo se qualcuno aveva da regalarmi uno scarpone da ghiaccio vecchio e inutilizzato che io poi avrei “distrutto” per adattarlo alle mie esigenze. Anche in questo caso, la “storia” è stata rilanciata a destra e manca ed ho ricevuto una trentina di proposte. Ecco, da qui la mia idea per l’associazione: questa forza, la generosità delle persone, deve essere canalizzata, riunita in qualcosa. Le persone donano quando sanno che i loro doni saranno ben utilizzati. Con la futura associazione vorrei realizzare, in primis una raccolta materiali e, perché no, una raccolta fondi con l’obbiettivo di creare una sorta di laboratorio/magazzino “for all”. Avere materiale su cui fare esperimenti per dare una possibilità – a chi vuole – di accedere a del materiale “elaborato” o da “elaborare” sarebbe davvero tanta roba. Io, per fortuna, ho questa attitudine a risolvere i miei problemi che mi ha sempre permesso di arrangiarmi da solo, ma uno che non ha questo piglio, facilmente rinuncia al primo ostacolo. Avere un laboratorio alle spalle con tanto materiale ‘sacrificabile’ per i vari esperimenti, sarebbe tanta tanta roba.
Cambio argomento e ti porto sul lato performance sportiva: sei seguito da qualche preparatore?
Sì, di recente mi sono affidato ad un allenatore. Fino a poco fa mi sono sempre arrangiato, seguendo il mio istinto e la mia passione. Da Salt Lake City in poi, ho provato a viverla in modo più serio, anche per risparmiare tempo. Mi sono messo nelle mani di Alessandro Biggi, che allena sia me che Simone Salvagnin, mio amico e compagno di squadra. Ci troviamo una volta a settimana al King Rock di Verona per fare corda assieme. Sempre Alessandro ci gestisce la parte di lavoro a secco e quella boulder che poi facciamo in autonomia durante la settimana. Sono contento e mi piace come approccio, mi sto trovando bene. È bello non sentirsi dei “climber per caso”.
E adesso che ti tieni di più? Inizi a vedere dei limiti nel prototipo con cui scali? Nuove forze aprono spesso gli orizzonti a nuove tecniche.
Beh, sì. Inizio a toccare con mano il limite di questo mio modello e la sua assenza di sensibilità. Praticando anche “slack” ed essendomi innamorato della placca e dei suoi i movimenti di precisione ed equilibrio, vorrei una scarpa con più sensibilità, che mi faccia sentire un po’ di più cos’ho sotto quel il mio piede sinistro.
Mi sorprendi. Tu? Slackliner?
Si, è una attività che è nata più o meno in parallelo all’arrampicata. È assurdo perché mi sembrava impossibile farla senza un piede. Ma ho voluto provare e, a forza di tentativi (anche grazie al periodo di quarantena in cui non si poteva fare granché), ci sono riuscito. Mi sono allenato su una vecchia cinghia da camion che mio padre usava per tenere ferme le sue moto da enduro nel suo mitico furgone. Dalla cinghia da camion son poi passato presto ad una linea come si deve, fino ad arrivare a camminare linee lunghe centinaia e centinaia di metri. (Ad oggi il mio record è stata una 315 metri con 5 cadute, sospeso (e imbragato) nel vuoto).
foto di Alessia Festi
La cosa che salta fuori in modo netto dalle tue parole è questa enorme libertà di affrontare la vita. Il tuo punto di partenza, apparentemente svantaggiato, in realtà porta con sé la possibilità di rivedere in modo del tutto personale le aspettative tipiche di chi, forte della sua normalità, vive male il confronto con gli altri. Per te è tutto un regalo ed è l’approccio che tutti noi dovremmo avere nei confronti della vita. Il problema, quasi per tutti, non è tanto quello di riuscire in uno sport, ma quello di primeggiare, di essere un campione. Ed è in questo desiderio di essere qualcuno che si perde e si annacqua il vero senso del fare sport.
Primeggiare per me è qualcosa di fuorviante, è un’idea frutto della nostra società basata sull’autoproclamazione e sull’immagine che gli altri hanno di te. Secondo me l’approccio libero (e sciallo) è la chiave di tutto. Alla fine l’unica cosa che conta è stare bene con sé stessi, punto. Io lo chiamo “Gaso”, tanti possono invece chiamarla voglia di vivere: è quel formicolio nella pancia che in settimana ti tiene sveglio la notte e durante il weekend ti spinge ad alzarti alle tre di mattino per andare in montagna a fare ciò che ti fa stare bene, non perché te l’ha ordinato il medico ma perché te lo senti tu.
Ti ascolto e penso che questo nostro corpo, che ci rende tutti apparentemente simili, in realtà ci contraddistingue in modo univoco. È la base di partenza del nostro pensare libero. E quanto più il corpo si allontana dalla norma, dalla presunta normalità, tanto più diventa naturale pensare in modo autonomo. Lo dimostri tu, che forte della tua “agenesia parziale” ti muovi in modo assolutamente libero, né con né contro le tendenze che orientano la società. Sei libero da ogni sovrastruttura di senso che possa rovinare le gioie che il tuo corpo sa darti attraverso le sue capacità. La “agenesia parziale” diventa una qualità che ti ha permesso tutto questo. Essere “in minoranza” in una determinata società di permette di avere un punto di vista fuori dalle logiche, che per mille motivi, sono proposte come vincenti ma sono anche molto lontane dall’essenzialità: il piacere di muoversi e di godere del proprio corpo.
L’arrampicata per me è stata una rinascita e una rivalsa personale. Il basket, il primo amore, l’ho abbandonato perché a una “certa” non mi dava più soddisfazione e, anzi, a fine allenamento mi faceva stare male perché non riuscivo più a star al passo dei miei compagni. L’arrampicata è uno sport in cui ci si misura con sé stessi e questo mi ha tolto da un confronto serrato con gli altri. Probabilmente, non avessi avuto questo “problema di piede”, sarei ancora lì a giocare a Basket e non avrei mai incontrato l’arrampicata…
Già, il “metro campione” che misura l’arrampicata, il grado francese, non è conservato al Louvre, ma siamo noi stessi nel confronto con l’immobile parete.
Ho conosciuto in questi due anni persone che sarebbero ben contente di aver ancora le loro gambe, ma che da quando hanno avuto l’incidente o la malattia la loro vita è svoltata. Superata la disgrazia, hanno cambiato il modo di vedere la vita e, più in generale, il loro approccio ad essa. Più di qualcuno arriva a vederci un miglioramento. C’è un mio amico che, dopo esser riuscito a superare il trauma e dopo aver trovato le soluzioni di vita necessarie per poter vivere le sue passioni, mi ha detto: me la vivo meglio di prima.
Grazie Pietro, grazie di cuore.
Andrea Tosi