Perché scali?
«…ma tu, perché scali?»
Eccola che arriva, la temuta domanda: prima o poi arriva. Ci pensi un attimo, quasi non sai se abbozzare una rispostina da small talk – facile, veloce e oserei dire indolore – o se rispondere in modo sincero e aprire la voragine emotiva.
Certo, la risposta è estremamente soggettiva, ma c’è un qualcosa, un sostrato che accomuna e fonda tutti quanti: ognuno di noi conserva, nel più profondo angolino del sé, un motivo quasi segreto, che muove e smuove, emoziona e arde, che il più delle volte è difficile da tradurre in parole e se ne resta lì, nelle profondità del nostro essere, silenzioso ma tonante, timido ma potente.
Quindi, qual è il mio perché? Credo si tratti di un gioco che se ne sta in bilico tra equilibrio e adattamento. Anzi, è arte: la scalata, per me, è un’arte. L’arte del restare in equilibrio e dell’adattarsi.
Arrampicare, quindi, è riuscire a stare in equilibrio. Su piedini minuscoli o sporgenze quasi invisibili? Anche, ma non solo: l’equilibrio corporeo che ti serve in parete è lo specchio di ciò che accade dentro di te nell’istante in cui ti approcci alla roccia, alle prese. È l’immagine speculare dell’equilibrio interiore che deve sussistere tra le tue brillanti potenzialità e capacità e le tue più voraci e fameliche insicurezze. Al di là dell’allenamento della forza esteriore e fisica, l’arrampicata è ciò che ti permette di allenare la “forza” che alberga in te stesso, una forza che si traduce in quello che è il dialogo interiore. Perché? Semplice: nessun altro, oltre te stesso, può condurti in catena, farti valicare la sommità di un boulder o, più semplicemente, farti raggiungere e superare ciò che credevi fosse il tuo limite. Mentre sei appeso a un sasso o sospeso a una manciata di metri d’altezza, puoi allegramente chiacchierare con i compagni di scalata, ma ad un certo punto – e tutti lo conosciamo bene, questo fatidico “punto” – il resto scompare, e l’unica persona con cui dialoghi in modo autentico, sei tu. Cosa racconti a te stesso, mentre si fa spazio, tra la nuda roccia e il dolce suono del vento tra le fronde degli alberi, l’eco della tua voce interiore? Come parli con te stesso? L’equilibrio risiede proprio qui, nel modo in cui conversi con il tuo sé: nella consapevolezza delle proprie capacità, nel sapersi scorgere in mezzo alle proprie paure, nel saper riconoscere il pensiero che è frutto dell’insicurezza, e ciò che invece è il cuore pulsante della tua potenza interiore. Se l’equilibrio fisico consiste nell’aver piena consapevolezza di sè e nel percepirsi appieno in ogni micro-movimento, allo stesso modo, lo stare in equilibrio in sé è il percepirsi autenticamente in mezzo alla matassa aggrovigliata dei pensieri. Un groviglio che, presa dopo presa, metro dopo metro, si dipana. Se il dialogo che intrattieni con il tuo sé non è fatto di consapevolezza e comprensione – insomma, di equilibrio – difficilmente li sbrogli, i tuoi fili. Ecco, la parete e la roccia sono un’ottima palestra per imparare l’umile arte del restare in equilibrio in se stessi…mentre si cerca di stare in equilibrio fuori da sé.
La scalata è anche l’arte dell’adattarsi. Diciamocelo dai, noi scalatori effettivamente siamo un po’ ambiziosi: ci confrontiamo con i giganti della natura e pretendiamo, con le sole nostre forze, di fare quello che a primo impatto può sembrare l’atto di “vincere” la roccia, sormontandola o percorrendola in verticale. Personalmente, però, non credo che le cose stiano davvero così. Quello che a prima vista può sembrare un “vincere” la roccia nasconde, in verità, una sfumatura molto più gentile ed ossequiosa nei suoi confronti. L’arrampicata, infatti, la vedo come un adattarsi alla roccia: è far sì che il proprio corpo abbia la forza, la tecnica e l’equilibrio necessari per aderire ad essa, quasi come se fosse una sorta di “collaborazione” con le sue potenze tensionali. Potenze che, silenziose, le permettono di restare lì, immobile e imperturbabile, da millenni. Noi, minuscoli esseri perituri, non stiamo tentando di “vincere” la roccia: ci stiamo allenando con pazienza e costanza – esteriormente ed interiormente – per comprenderla nelle sue più intime venature, per adattarci alla sua forza millenaria, aderire alle sue fattezze. In poche parole, per diventare Uno con lei. La scalata è un nobile atto di riverenza nei confronti dei giganti della Terra. Ben riassume il concetto la strofa del brano Spigolo tondo, opera del magistrale trio Fabi-Silvestri-Gazzé:
«La natura non propone angoli retti,
è una sinfonia di contorni inesatti
e da sempre si oppone al teorema dell’uomo che la vuole inquadrare…
La natura ha leggi complesse,
ma semplici da rispettare;
basta volere fermarsi un momento
e imparare a guardare.»
Nell’arrampicata non ci sono tentativi di “inquadramento” della roccia: è l’uomo che, per viverla appieno nei suoi più impervi versanti, si adatta a lei, ai suoi «contorni inesatti». Ed è aderendo ad essi, che fai pace con i tuoi contorni e le tue “contundenze”, i tuoi “spigoli” interiori…che chissà, magari un domani diventeranno tondi pure quelli. Basta, appunto, fermarsi e osservare: imparando a guardare la roccia si scorge tutto ciò di cui ti puoi servire di lei per riuscire a scalarla. Sospeso, dialogando con te stesso, nel tuo equilibrio, osservi anche le tue più remote profondità.
Questo è ciò che si nasconde dietro ad un banale: «Perché scali?» «Perché mi piace!».
Sofia Agricoltore
foto di Andrea Tosi